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sabato 24 dicembre 2016

Antonio Aniante: "Con De Pisis a Montparnasse"

Elio Lentini ed Antonio Aniante - Fonte: Associazione Culturale Antonio Aniante - Elio Lentini
Nelle Memorie di Francia Antonio Aniante tratta di Filippo De Pisis nel capitolo - appunto! - Con De Pisis a Montparnasse. Dopo un inizio, che pare preludere a qualche rimbrotto all'antico ed ora fortunato compagno di avventure, la narrazione procede non senza espressioni d'affetto, entro un reticolo di notazioni, più giornalistiche, anzi più intimistiche che propriamente biografiche, in cui una sgarbatezza palese od ancora le sfaccettature ambigue di De Pisis non alterano la sostanza di un rapporto amicale, pur se il catanese - evidentemente in relativa sintonia col maestro - qualche frecciata pungente - volontariamente od in linea subliminale - se la lascia sfuggire sulla sua vita irregolare e sulla sua condizione di omosessuale:
CON DE PISIS A MONTPARNASSE (pp.55 - 59)
I critici non hanno ricordato del mio caro, indimenticabile amico e scrittore Comisso, il patetico libro consacrato a De Pisis, edito da Livio Garzanti.
Più di una volta mi ero detto di raccontare a Comisso un episodio della vita parigina dell'illustre pittore ferrarese, con preghiera di innestarlo in una eventuale ristampa.
Nel 1932, a trentadue anni quando mi furono tagliati i ponti e quindi fui costretto a vivere d'espedienti, improvvisai in un umido sotterraneo di Montparnasse, una galleria d'arte, che chiamai: "Juene Europe".
Mi recai da de Pisis, che cominciava allora a godere di un po' di notorietà (non come poeta, quale era il suo sogno, da ragazzo, ma come pittore), e gli proposi una mostra, da me, dei suoi più recenti dipinti.
Fin dal 1914 ero un suo ammiratore, cioè dal tempo in cui avevo in cassetto il suo primo libro di versi: "La città dalle cento campane".
L'accordo fu presto concluso, ma non senza avergli giurato che i miei rapporti con il regime erano eccellenti. Se gli avessi detto la verità, l'affare sarbbe andato in fumo e svanita la speranza di appuntellare le vacillanti finanze con la vendita dei suoi quadri.
Non troppo sicuro delle mie affermazioni, Filippo, mi anticipò tuttavia, le spese; e pochi giorni dopo, radunò le sue tele nella mia galleria.
Mi affrettai a stampare i manifesti e gli inviti che, insieme, diramammo, con in testa ambasciatori e consoli del nostro e dei Paesi alleati.
Ma due ore prima della vernice, de Pisis arrivò in taxi, non certamente solo; staccò le tele dalle pareti e se le portò via.
Io mi ero assentato dalla "Jeune Europe" da un quarto d'ora appena! Senza dubbio, Filippo aveva posto ai due angoli della strada due sentinelle, che lo avrebbero avvertito in caso di mio arrivo.
Era avvenuto questo: comuni amici di Montparnasse, andati a trovarlo con pezze d'appoggio in mano, lo avevano persuaso del pericolo in cui incorreva frequentandomi.
Alla vista delle pareti nude mi sentii venir meno. Gli invitati e i critici affluivano. Raccolte le mie recondite energie, che son propio quelle della disperazione, mi precipitai nei tre più vicini caffè, il "Dome", la "Rotonde", e la "Coupole", e lì con poche parole, ma quanto mai efficaci, persuasi una dozzina di giovani pittori ebrei, freschi arrivati a Montparnasse dai lontani ghetti, a volare nei loro studi, a prendere le loro migliori tele ed a portarmele nella mia galleria subito. Come tanti daini si dispersero ai quattro venti e ritornarono a me immediatamente, senza il minimo ritardo per il semplice fatto che le loro tele le avevano depositate qua e là nello stsso tratto del nostro boulevard.
Il successo fu tale che tutte le opere esposte andarono a ruba, e parecchi clienti comprarono i quadri dei piccoli ebrei, pensando che fossero di de Pisis: non solo ma pure alcuni critici elogiarono de Pisis che aveva saputo così bene illustrare il ghetto di Varsavia.
La sera della vernice raccontai a un collega la mia disavventura, chiusasi, meno male, felicemente per le mie finanze.
- Io al vostro posto, - mi consigliò - mi recherei da un avvocato e chiederei il risarcimento dei danni materiali e morali.
- Sì, - gli risposi - ottima idea, la vostra.
E andai a coricarmi con l'intenzione ferma di intentare un processo al pittore. Ma dopo due ore di sonno agitato, mi svegliai di colpo, in un mare di sudore.
- Che pazzia sarebbe la mia - mormorai, voltandomi dall'altra parte - povero de Pisis, un processo a lui che mi ha tanto aiutato? Giammai!
Mi ero ricordato, improvvisamente, del bene che non mi aveva lesinato: e pranzi, e soldi, e quadri, e vestiti, e cravatte, e bastoncini, e di più: circa un mese dopo il mio arrivo a Parigi, avendo lasciato nei vari alberghi le mie valigie al posto del denaro, mi ero ridotto sul lastrico senza più speranza di salvezza. In una lunga lettera manifestai il mio profondo turbamento a de Pisis, e non mi rimaneva altro santo da supplicare- - Non si sa mai, - pensai - potrebbe compiere il miracolo, non si sa mai.
E infatti, e non senza mio stupore, arrivò di corsa e mi sollevò da terra e mi diede vita.
Una volta, entrò e uscì dal "Dome", con la testa fasciata nel cotone idrofilo e nella garza. Finse di non riconoscermi? O non si accorse della mia presenza? Che gli era capitato?
Come e quanto Jean Cocteau, egli prediligeva i giovani marinai delle navi da guerra dei porti di Tolone e di Brest, belli e volgari ragazzi, che, lautamente pagati, posavano per lui. Uno di essi, dopo avergli tolto il portafogli, gli spezzò una bottiglia in testa. Rimasto solo, in un lago di sangue, il pittore si trscinò fino al balcone e si mise a gridare con quel po' di voce che gli rimaneva:
- "Aìta, Aìta!"
Per sua fortuna passava di lì un suo conoscente; gli abitanti della viuzza erano tutti ciechi e sordi. Pagàno di sentimenti e di costumi, Filippo lavorava e viveva in pieno cuore di Saint-Sulpice, quartiere delle chiese, dei conventi, delle librerie cattoliche e dei negozi d'oggetti sacri, al servizio della gente pia; scendeva in pigiama e andava in giro al braccio di giovani marinai avvinazzati, per cui non era per nulla ben visto, per non dire che veniva additato come una autentica Non si era mai accorto dell'ostilità dei vicini; anzi era certo che dalla portinaia al parroco tutti lo stimavano e ammiravano. Nessuno mi leva dalla testa che i gravi disturbi cerebrali, che lo portarono alla tomba e dei quali parla lungamente ma vagamente Comisso nel suo libro, erano dovuti al tremendo colpo di bottiglia che aveva ricevuto sul cranio.

di Antonio Aniante da Elio Lentini Scultore in Cultura-Barocca

domenica 18 dicembre 2016

Anglicanesimo

Enrico VIII d'Inghilterra ritratto da Hans Holbein il Giovane tra il 1539 e il 1541 - Fonte: Wikipedia
Nei secoli precedenti il XVI si erano già manifestate nella Chiesa d'lnghilterra forti tendenze autonomistiche, derivanti anche dalla volontà dei sovrani di esercitare un sempre più stretto controllo sulle sue attività e sui suoi cospicui beni terrieri.
Pertanto le complicate vicende matrimoniali di Enrico VIII, che peraltro aveva in precedenza difeso il papa contro le dottrine luterane, furono soltanto il pretesto occasionale che permise al re di autoproclamarsi capo della Chiesa inglese con l'Atto di supremazia del 1534. 
Con tale atto tuttavia il sovrano non mutò nulla nè della dottrina nè dell'ordinamento gerarchico romano. 
L'anglicanesimo divenne una confessione riformata solo durante il regno del giovanissimo Edoardo VI (1547-53), soprattutto per opera dell'arcivescovo Cranmer e dei lord protettori del sovrano. 
A partire da tale epoca l'anglicanesimo fu influenzato prima dal luteranesimo e poi dallo zwinglianesimo e dal calvinismo. 
Con il Book of Common Prayer (poi riveduto varie volte), imposto alla Chiesa anglicana con l'Atto di uniformità nel 1549, e con i 42 Articoli di religione, approvati nel 1553, venne sancito il principio della Bibbia come norma suprema della fede, fu introdotta la lingua inglese al posto del latino nei riti, vennero ammessi il matrimonio dei sacerdoti e i soli sacramenti del battesimo e della santa cena (e sostenuta la presenza reale, ma soltanto spirituale, di Cristo nell'eucaristia, negando quindi la dottrina della transustanziazione) e la validità dei primi quattro concili ecumenici; furono però riaffermati nello stesso tempo la successione apostolica dei vescovi (contro le tendenze presbiteriane del calvinismo), il culto dei santi e la maggior parte del rituale cattolico. 
Dopo la parentesi restauratrice di Maria la Cattolica o la Sanguinaria, l'anglicanesimo si affermò definitivamente durante il regno di Elisabetta I (1558-603). 
Con il nuovo Atto di supremazia e di uniformità del 1559 il sovrano inglese fu designato come "supremo reggente" della Chiesa e non più come suo "supremo capo" di conseguenza egli non aveva più il potere di modificare le dottrine di fede.
Con la formulazione dei 39 Articoli di religione (1571) si precisarono le dottrine della giustificazione per la sola fede nei termini usati dalla luterana Confessione di Augusta (1530) e della predestinazione (ma con il riconosimento del carattere universale della salvezza portata da Cristo); venne rafforzata la struttura episcopale della Chiesa e la sua natura di Chiesa di stato con l'assegnazione al re del compito di eleggere i vescovi, dietro approvazione del parlamento, nel quale essi entravano come membri (lord spirituali) della Camera alta. 
Nella Chiesa anglicana era così avvenuta una fusione tra potere spirituale e monarchia tale da far ritenere interdipendenti le due istituzioni: celebre a questo proposito la formula di re Giacomo I "No Bishop, no King" ("Se non ci fosse il vescovo, non ci sarebbe il re"). 
Il compromesso tra struttura gerarchica, ancora simile a quella cattolica, e dottrina di tipo riformato portò nei secoli successivi l'anglicanesimo a veder nascere dentro di sè correnti religiose contrastanti: il puritanesimo impostosi con Cromwell fu presto soppiantato con la restaurazione degli Stuart (1660), che vide però fiorire vari gruppi religiosi riformati dopo l'Atto di tolleranza promulgato nel 1689 da Guglielmo III; in particolare, nel XVII sec. si svilupparono varie correnti a carattere deistico, sostenitrici di una religione naturale, e il metodismo, confessione riformata, ma contraria a un eccessivo ritualismo e a un rigido istituzionalismo. 


domenica 11 dicembre 2016

Rosa Venerini, pioniera della scuola pubblica femminile

Fonte: Wikipedia

Rosa Venerini nacque a Viterbo, il 9 febbraio 1656. Il padre, Goffredo, originario di Castelleone di Suasa (Ancona), dopo aver conseguito la laurea in medicina a Roma, si trasferì a Viterbo ed esercitò brillantemente la professione di medico nell’Ospedale Grande. Dal suo matrimonio con Marzia Zampichetti, di antica famiglia viterbese, nacquero quattro figli: Domenico, Maria Maddalena, Rosa, Orazio.
 
Rosa fu dotata dalla natura di intelligenza e di sensibilità umana non comuni. L’ educazione ricevuta in famiglia le permise di sviluppare i numerosi talenti di mente e di cuore e di formarsi a saldi principi cristiani. All’età di sette anni, secondo il suo primo biografo, Padre Girolamo Andreucci fece voto di consacrare a Dio la sua vita. Durante la prima giovinezza, visse il conflitto tra le attrattive del mondo e la promessa fatta a Dio. Superò la crisi con la preghiera fiduciosa e la mortificazione.
 
A 20 anni, Rosa si interrogava sul proprio futuro. La donna dei suoi tempi poteva scegliere solo due orientamenti di vita : il matrimonio o la clausura. Rosa stimava l’una e l’altra via, ma si sentiva chiamata a realizzare un altro progetto a vantaggio della Chiesa e della società del suo tempo. Spinta da istanze interiori profetiche, impiegò molto tempo, nella sofferenza e nella ricerca, prima di giungere ad una soluzione del tutto innovativa.
 
Nell’autunno del 1676, d’intesa con suo padre, Rosa entrò in educazione nel monastero domenicano di Santa Caterina a Viterbo con la prospettiva di realizzare il suo voto. Accanto alla zia Anna Cecilia imparò ad ascoltare Dio nel silenzio e nella meditazione. Rimase nel monastero pochi mesi perché la morte prematura del padre la costrinse a tornare accanto alla mamma sofferente. 

Negli anni immediatamente successivi Rosa dovette farsi carico di avvenimenti gravi per la sua famiglia: a soli 27 anni di età morì il fratello Domenico e, pochi mesi dopo, lo seguì la madre che non resse al dolore. Nel frattempo Maria Maddalena si era sposata.
Rimanevano in casa soltanto Orazio e Rosa che aveva ormai 24 anni. Spinta dal desiderio di fare qualcosa di grande per Dio, nel maggio del 1684, Rosa iniziò a radunare nella propria abitazione le fanciulle e le donne del vicinato per la recita del Rosario. Il modo di pregare delle giovani e delle mamme, ma soprattutto i dialoghi che precedevano o seguivano la preghiera aprirono la mente e il cuore di Rosa sulla triste realtà: la donna del popolo era schiava della povertà culturale, morale e spirituale . Capì allora che il Signore la chiamava ad una missione più alta che, gradualmente, individuò nell’urgenza di dedicarsi all’ istruzione e alla formazione cristiana delle giovani, non con incontri sporadici, ma con una scuola intesa nel senso vero e proprio della parola .
 
Il 30 agosto 1685, con l’approvazione del Vescovo di Viterbo, Card. Urbano Sacchetti e la collaborazione di due Compagne, Gerolama Coluzzelli e Porzia Bacci, Rosa lasciò la casa paterna per dare inizio alla sua prima scuola , progettata secondo un disegno originale che aveva maturato nella preghiera e nella ricerca della volontà di Dio. Il primo obiettivo era quello di dare alle fanciulle del popolo una completa formazione cristiana e prepararle alla vita civile. Senza grandi pretese, Rosa aveva aperto la PRIMA SCUOLA PUBBLICA FEMMINILE IN ITALIA .
 
Le origini erano umili, ma la portata era profetica; la promozione umana e l’elevazione spirituale della donna erano una realtà che non avrebbe tardato ad avere il riconoscimento delle Autorità religiose e civili.
 
Gli inizi non furono facili. Le tre maestre dovettero affrontare le resistenze del clero che si vedeva privato dell’ufficio esclusivo di insegnare il catechismo. Ma la diffidenza più cruda veniva dai benpensanti che erano scandalizzati dall’audacia di questa donna dell’alta borghesia viterbese che prendeva a cuore l’educazione delle fanciulle di basso rango. Rosa affrontò tutto per amore di Dio e con la forza che le era propria e continuò nel cammino che aveva intrapreso, ormai certa di essere nel vero progetto di Dio.
 
I frutti le diedero ragione: gli stessi parroci si resero conto del risanamento morale che l’opera educativa generava tra le fanciulle e le mamme. La validità dell’iniziativa fu riconosciuta e la fama oltrepassò i confini della Diocesi. 

Il Cardinale Marco Antonio Barbarigo, Vescovo di Montefiascone, capì la genialità del progetto viterbese e chiamò la Santa nella sua Diocesi. La Fondatrice, sempre pronta a sacrificarsi per la gloria di Dio, rispose all’invito: dal 1692 al 1694 aprì una decina di scuole a Montefiascone e nei paesi intorno al lago di Bolsena . Il Cardinale forniva i mezzi materiali e Rosa coscientizzava le famiglie, preparava le maestre e organizzava la scuola. Quando dovette tornare a Viterbo per attendere al consolidamento della sua prima opera, Rosa affidò le scuole e le maestre alla direzione di una giovane, Santa Lucia Filippini, di cui aveva intravisto le particolari doti di mente, di cuore e di spirito.
 
Dopo le aperture di Viterbo e di Montefiascone, altre scuole vennero istituite nel Lazio. Rosa raggiunse Roma nel 1706, ma la prima esperienza romana fu per lei un vero fallimento che la segnò profondamente e la costrinse ad aspettare sei lunghi anni prima di riavere la fiducia delle Autorità. L’8 dicembre del 1713, con l’aiuto dell’Abate Degli Atti, grande amico della famiglia Venerini, Rosa poté aprire una sua scuola al centro di Roma, alle pendici del Campidoglio. Il 24 ottobre 1716 ricevette la visita del Papa Clemente XI che, accompagnato da otto cardinali, volle assistere alle lezioni . Meravigliato e compiaciuto, alla fine della mattinata, si rivolse alla Fondatrice con queste parole: “Signora Rosa, voi fate quello che Noi non possiamo fare, Noi molto vi ringraziamo perché con queste scuole santificherete Roma”. Da quel momento, Governatori e Cardinali chiesero le scuole per le loro terre.  L’impegno della Fondatrice diventò intenso, fatto di peregrinazioni e di fatiche per la formazione delle nuove comunità, intessuto di gioie e di sacrifici. Dove sorgeva una nuova scuola , in breve si notava un risanamento morale della gioventù.
 
Rosa Venerini morì santamente nella Casa di San Marco in Roma, la sera del 7 maggio 1728. Aveva aperto più di 40 scuole. Le sue spoglie vennero tumulate nella vicina Chiesa del Gesù, da lei tanto amata. Nel 1952, in occasione della Beatificazione, furono trasferite nella cappella della Casa Generalizia, a Roma.

da Cultura-Barocca


giovedì 1 dicembre 2016

La Via della Seta

Fonte: Wikipedia
Per migliaia di anni, la Via della Seta, il fascio di percorsi a dir poco accidentati, che univa la Cina al Mar Mediterraneo, è stata il più importante canale di transito delle idee e dei commerci tra la Cina e il mondo occidentale. Su quelle strade, a dire il vero, si sono incrociati profumi, spezie, oro, pelli, metalli, porcellane, medicinali e quant'altro bene fosse disponibile nel primo millennio dell'Era cristiana.
Per non parlare di ambascerie, eserciti, missionari ed esploratori.
Eppure fu proprio la seta, il prezioso e fin dall'inizio costosissimo tessuto dall'origine ammantata di mistero, a permettere che quegli scambi commerciali e culturali cominciassero a fiorire.
All'inizio dell'estate del 53 avanti Cristo, precisamente 700 anni dopo la fondazione di Roma, sospinto dall'invidia per i trionfi militari di Cesare e Pompeo, Marco Licinio Crasso partì alla volta della Persia al comando di sette legioni, per sfidare l'esercito dei Parti a tornare a Roma carico di bottino e onori.
Le cose non assecondarono le previsioni del povero Crasso il quale, uomo di commerci più che di battaglie, pagò quell'imprudenza con la vita, oltre che con una sonora sconfitta ricordata nella storia romana sotto il nome di battaglia di Carre.
Per quanto funesto, quell'episodio segna la prima occasione in cui i Romani vennero in contatto con la seta, con la quale erano tessute le cangianti insegne innalzate dai guerrieri Parti.
Nemmeno mezzo secolo dopo, la "serica" - così detta perché fabbricata dal lontano popolo dei Seri, come a Roma venivano chiamati i cinesi - era il più ambito status symbol della nobiltà romana, che ne faceva sfoggio in ogni occasione di mondanità, un po' come oggi.
Separate da altri due grandi imperi - dei Parti in Persia e dei Kushana nei territori degli attuali Afghanistan e Pakistan - in quel periodo Roma e la Cina non vennero in contatto diretto, sebbene entrambe tentassero di inviare ambasciatori dall'altra parte del mondo.
Fu così che, per secoli, i Romani non seppero nulla circa l'origine della seta e della lavorazione necessaria per tesserla.
Nella Storia naturale di Plinio il Vecchio si dice dei Seri che fossero "famosi per la lana delle loro foreste".
E aggiungeva: "Staccano una peluria bianca dalle foglie e la innaffiano; le donne quindi eseguono il doppio lavoro di dipanarla e di tesserla".
Dei bachi, nessuna notizia.
In Cina, d'altronde, il segreto di quel prodotto così fondamentale nei rapporti commerciali con il mondo occidentale era custodito con la massima cura, tanto che l'esportazione dei bachi da seta era proibita da una legge severissima.
Solo intorno al 420 dopo Cristo, durante la profonda crisi che divise la Cina nei tre imperi Wei, Wu e Shu, la figlia di un imperatore si rese colpevole di un crimine che, secondo la legge, era punibile con la morte.
Concessa in sposa a un principe di Khotan - una delle città Stato del bacino del Tarim - per assecondare i desideri del marito, la "principessa della seta" riuscì a contrabbandare le uova dei bachi da seta e i semi di gelso, nascondendoli nell'ornamento della sua acconciatura.
A quell'epoca, le città del bacino del Tarim - nell'attuale Regione autonoma cinese dello Xinjiang - erano tappe obbligate per chi, provenendo da Xi’an (allora Chang'an), percorreva il Gansu e si apprestava ad attraversare l'Asia centrale tra mille insidie.
Il clima, innanzitutto, molto rigido d'inverno e torrido d'estate nelle depressioni del deserto del Takla Makan, metteva a dura prova gli uomini e gli animali, che avrebbero poi dovuto affrontare gli aspri passi del Pamir per scendere lungo le valli del Pakistan a dell'Afghanistan.
In più, le carovane correvano un serio pericolo, poiché erano esposte agli attacchi degli Xiongnu, una popolazione di bellicosi nomadi del Nord che assaliva i viaggiatori che si avventuravano in quelle zone deserte.
Attraverso quello stesso percorso, intorno alla metà del I secolo dopo Cristo, il buddhismo fece il suo ingresso in Cina.
Nata più di cinque secoli prima nelle inospitali vallate del Nepal, la nuova religione aveva ormai molti proseliti in India e i più intraprendenti si incamminarono lungo le piste della Via della Seta predicando il verbo del principe Siddharta, l'ormai famoso e venerato Buddha Sakyamuni.
Dalla valle dell'Indo alle città dello Xinjiang, sono innumerevoli le testimonianze dell'arte religiosa buddhista, la cui popolarità esplose letteralmente in Cina sul finire del III secolo, quando tra Xi’an e Luoyang si contavano 180 istituti religiosi buddhisti e più di 3.000 monaci.
Nonostante abbia vissuto una seconda età dell'oro grazie alle memorie dei viaggiatori medievali come Marco Polo a Ibn Battuta, intorno al VI-VII secolo la Via della Seta cominciò il suo lento declino, in parte per la scarsa stabilità politica dell'impero cinese nelle sue regioni più occidentali e poi per la spinta dell'Islam.
Ma fu soprattutto la concorrenza di una nuova arteria commerciale a determinare lo spostamento d'interesse dei mercanti europei: l'India e la Cina venivano raggiunte via mare.
Fin dai primi secoli dopo Cristo le imbarcazioni partivano dai porti del Mar Rosso o del Golfo Persico e, grazie all'aiuto dei monsoni, approdavano a Barygaza o Muziris, sulla penisola Indiana.
A volte, il tragitto proseguiva fino alla Cina meridionale, doppiando la penisola indocinese.
Pericolosi pirati assalivano spesso le navi di passaggio al largo della costa pakistana o di quella malese ma, a conti fatti, la via di mare era ormai decisamente più rapida a sicura della via di terra.